“Nelle Dispute Conviviali di Plutarco, sottolinea uno dei personaggi: “Noi ci invitiamo l’un l’altro non per mangiare e bere semplicemente, ma per mangiare e bere insieme”. E’, a mio avviso, una delle sintesi più efficaci sul senso dello stare a tavola tra le persone”afferma Gian Arturo Rota, direttore generale della Veronelli Editore. La convivialità è sinonimo di festa, celebrazione di momenti fondamentali della vita, piacere di condivisione. Tratto da L’ORDINE del 24/12/2009
Tutti valori da preservare gelosamente in un’ epoca in cui identità culturali e quindi tradizioni peculiari di ogni paese, fatte anche di gesti, riti , simboli, sembrano destinate a perdersi minate sia dall’uragano della globalizzazione, sia dall’accanirsi di fanatismo religioso e laicismo dogmatico. La cultura gastronomica ha un ruolo fondamentale nel mantenere vivo il senso di appartenenza , la memoria storica di un popolo. Anche in territorio lariano è dunque importante riscoprire i cibi, soprattutto i più semplici, quelli definiti spesso “poveri”, che appartengono alla cultura contadina e dei quali ancora oggi si parla, a differenza della varietà e raffinatezza dei piatti che imbandivano le mense della borghesia. “E’ importante non tanto tramandare e quindi in qualche modo modificare, tradire le ricette originarie, ma riscriverle e riproporle in tutta la loro autenticità” spiega Franco Soldaini, grande esperto di storia e cultura enogastronomica .Magari girando tra i paesi del lago, come fecero lui e gli allievi della Scuola Alberghiera che dirigeva a Bellagio alla fine degli anni ’60, per “farsi raccontare” dai vecchi i segreti di una cucina di cui stiamo perdendo le tracce, ma che racchiude nei suoi profumi, sapori, colori la storia della nostra gente che con le acque lacustri ha avuto da sempre un rapporto che è tutt’uno con la vita, che è la vita stessa. E in questo modo rievocare appunto quei profumi, quei sapori che abbiamo dentro di noi, ricordi sfumati d’infanzia che si fanno memoria collettiva e ci aiutano a recuperare le antiche tradizioni ed attraverso esse “chi e come” siamo. In questo senso , le festività di questo mese, il pranzo della vigilia e del giorno di Natale, assumono un significato profondo: certi piatti sono infatti il risultato di un processo culturale fatto di saperi, usi, valori che rispettano in parte la stagionalità e la conservabilità dei prodotti. La tavola apparecchiata con cura, la scelta di un menù ricco e speciale, fanno del pranzo natalizio il momento della comunione con gli altri, simbolo di generosità, gioia per la condivisione di affetti, desiderio di celebrare la santa festività in modo del tutto speciale. Le tradizionali pietanze preparate con amore rappresentano infatti oggi come rappresentavano nel mondo rurale l’offerta fatta a Gesù del meglio di ciòche si possa offrire. Per esempio, piatti natalizi del nostro territorio, ma anche della brianza e in generale in tutte le regioni del nord e del centro Italia, sono il cappone o la gallina ripieni, svuotati delle interiora e farciti di carne trita, salsicce, pistacchi , noci, castagne e fatti bollire per ore, per consumare anche il brodo con i cappelletti. Un piatto che nel mondo rurale era considerato ricco – il ripieno ne è chiaro esempio – e che diventava simbolo d’amore e riconoscenza nei confronti del Redentore, offerta da parte di chi come Lui, era nato e viveva in povertà. E’ importante sottolineare il significato dell’offerta, che rievoca i doni portati a Gesù dai pastori e dai Magi. Come è importante evidenziare il momento conviviale, quel “mangiare e bere insieme” dove l’avverbio acquista un valore fondamentale. E a questo proposito, Franco Soldaini ricorda un episodio significativo degli anni in cui viveva a Bellagio. Alla vigilia di Natale fu invitato a partecipare alla tradizionale festa di classe, a casa del “Masnin”, “Macinino”, soprannome dato al personaggio dai compaesani per il suo modo di parlare molto in fretta. C’erano persone di ogni ceto sociale, i battellieri, lo spazzino, il direttore delle poste. Nella cucina della casa, appeso sul fuoco del camino, un enorme paiolo dentro al quale quattro ”colossi”, facce rubizze e muscoli, con lunghi mestoli mescolavano vigorosamente la polenta che doveva amalgamarsi perfettamente al formaggio e al burro di latteria. Tutt’attorno il fumo dei legni d’ulivo che scoppiettavano nel camino. Stavano preparando “ul tucch” ( o tocc), tipico piatto bellagino e dei paesi vicini, “sconfinato” poi nella zona di Tremezzo. Alla fine della cottura, il grande paiolo veniva posto solennemente al centro della tavola e ciascun commensale, con un cucchiaio si serviva e poi, con le mani, formava una palla di polenta da assaporare lentamente. “Gli ingredienti erano amalgamanti a tal punto che le mani non si ungevano . C’era inoltre il piacere ancestrale, che abbiamo ormai perso diminuendo la nostra capacità tattile, di toccare, appunto il cibo con le mani” continua Soldaini. Poi, una volta terminata la polenta, la crosta croccante che rimaneva attaccata al paiolo, veniva scrostata e fatta cuocere in litri di barbera aromatizzati con chiodi di garofano e segrigiola, un’erba che cresce nei nostri boschi. A turno, ciascuno col suo boccale, attingeva dal paiolo questa densa, calda e profumata bevanda, “ul tucch col regell”. “Una serata straordinaria, che ricordo in ogni particolare. Momenti dove davvero ha senso lo stare insieme, perché viene fuori la parte migliore di ognuno, i sentimenti più autentici, complice un po’ anche l’acol”. Altro piatto caratteristico del territorio lariano, che si consuma alla vigilia, prima di andare a Messa, è la “büséca”.La trippa è un piatto ricco, non certo di magro. Ma, come quella del pesce, la sua carne è bianca, priva di sangue e dunque esprime pulizia esteriore. Si mangiano le interiora perché non hanno a che fare con l’atto cruento della macellazione. “ Il consumare questo piatto è un atto iniziale di penitenza, tipico della vigilia. E una forte spiritualità si ritrova ancora oggi sul nostro lago durante e festività natalizie. La cristianità ama purificare infatti anche il cibo” spiega l’enogastronomo. I dolci sono poi la parte più simbolica, evocativa del pranzo di Natale. Sono tanti e vari. Sul Lario non c’è tradizione di dolci lievitati. Il Matalòcch, ha l’impasto del panettone , senza essere così soffice e gonfio; sembra un pane dolce. Oltre ad ingredienti locali che lo rendono ricco – noci, nocciole, miele, fichi secchi – si aggiungono scorze di cedro e arancia candite, che testimoniano come anche la specificità di ricette locali si sia arricchita nel tempo con prodotti provenienti da altre zone, in questo caso le regioni meridionali. La “miascia”, torta “povera”, fatta con pane raffermo macerato nel latte , zucchero, fichi secchi, gherigli di noci, pere e mele; la “cutiza” o “paradell”, farina bianca, zucchero vanigliato, uova, latte, scorza di limone grattugiata e un pizzico di sale, tanto semplice da cucinare quanto squisita da gustare. Il pranzo di Natale, che ha dunque una profonda valenza religiosa, si carica anche sul Lario di molteplici significati che hanno origini antiche, affondano le radici negli usi e nelle tradizioni della gente del lago. Cerchiamo di tenerle vive , queste tradizioni, almeno durante queste feste. Magari proponendo ai nostri familiari, durante il giorno di Natale, un menù tutto lariano. Penso che non ci sia momento più bello di questo poter stare insieme, con i propri cari, nella propria casa, festeggiando la nascita di Gesù e gustando cibi cucinati con sapienza, secondo ricette semplici ed antiche, magari avendo anche la fortuna di poter guardare fuori dalla finestra e riempirsi gli occhi e l’anima della vista di questo paesaggio lacustre del quale, lariani per nascita o, come me, d’adozione, una volta che diventa parte della tua vita, non puoi più farne a meno.