Nonostante la giovane età, Martina Toppi è un’acuta e brillante giornalista culturale, che sa leggere la poesia in profondità e con consapevolezza matura. La ringrazio per la recensione, pubblicata sulla pagina culturale del quotidiano La Provincia di Como il 15 giugno 2020, di cui riporto il testo le foto qui sotto.
L’UMANA FRETTA DEI VIVI
Versi che fanno riflettere nella nuova raccolta bilingue di Laura Garavaglia
di MARTINA TOPPI
Si intitola “La presenza viva delle cose” (puntoacapo Editrice, 2020) l’ultima pubblicazione di Laura Garavaglia, tradotta in inglese da Annarita Tavani e accompagnata da una prefazione di Dante Maffia. Laura Garavaglia è avvezza ormai da tempo alla poesia, ambasciatrice culturale ma, in prima istanza, lei stessa poetessa. Ecco perché “La presenza viva delle cose” comunica al lettore un senso di temporaneo arrivo. C’è in questo piccolo libro una consapevolezza matura, quella con cui Garavaglia guarda alla vita e alle cose che il suo flusso incessante ha portato sulla battigia, sapendo che al di là delle nostre interminabili passeggiate senza meta “Le cose, vive o morte, sulla spiaggia/ prima o poi le ritrovi”. L’alternativa tra vita e morte non è un dettaglio minimo, smentito dal titolo dell’opera, (ancor più evidente nella versione inglese “Living Things”), ma piuttosto il riflesso di un unico volto. La poetessa in questi brevi versi mostra, senza dirlo, che è la presenza viva delle cose a parlarci della loro inevitabile morte. Come un eroe epico che discende negli inferi in visita ai propri fantasmi,
così la parola poetica di Garavaglia si cala nell’Ade per scorgervi volti del passato e promesse di futuro: entrambi incapsulati in un vortice di possibilità finite o ancora irrealizzatesi. Lo si comprende nel modo in cui la poetessa allude ai segnali che la natura ci lancia: “Sul vetro si riflettono/ le foglie del limone/ e sul balcone il ragno/ tesse una nuova tela”. Foglie di limone e tela di ragno non sono elementi casuali, ma sembrano a un tempo chiara metafora della transitorietà di tutto ciò che vive e citazione letteraria di chi, prima di lei, ce li ha mostrati come tali. Sono i limoni di Montale a svelarci “l’anello che non tiene”, il mistero della tappa definitiva che spetta a ogni vita. Così come è la tela di ragno in una poesia di Frost, intitolata “Design”, a raccontarci il disegno nascosto di una natura dove vita e morte si inseguono inesorabili e anche l’innocenza della bianca tela di un ragno può divenire trappola mortale. Vita e morte sono fotografate in queste fulminee poesie in un’unica danza perché “Nel giardino dei morti / passano i vivi / con una fretta che è tutta umana”. Presa coscienza di ciò, Garavaglia crea nei suoi versi la condizione per una catarsi indispensabile a continuare a gioire delle cose vive, al di là del dolore che il loro destino suscita. Anche se “Il passato ferisce il presente/ e questo silenzio ottuso, sordo/ non permette ritorno” è bene considerare che l’unico luogo in cui abbiamo coscienza della morte è proprio il passato, il momento attuale che questi versi colgono con salda presa è invece pieno di cose, cose vive, presenze vibranti di luce che promettono per il futuro un ricordo da stringere contro l’oblio: “Ma
niente toglie la speranza/ di un futuro ricordo”. In queste frasi brevi, sconvolgenti nella loro assoluta pretesa di verità, si cela proprio questa catarsi: queste chiuse inaspettate sorprendono il lettore e lo lasciano con il sapore dell’amaro in bocca. La verità svelata dall’autrice è una medicina amara, addolcita dalla bellezza di un’oculata scelta di vocaboli: “Ho un canyon nel cervello/ e crateri nei polmoni. / Posso farcela”. In questi versi il dolore è vivo e narrato nella quotidianità dei gesti, con malcelato disincanto – “Guardo dal lucernario/ il quadrato di pioggia/ la gamba rossa e gonfia/ e sono un po’ Rimbaud” – ma è allo stesso tempo elevato a sofferenza universale, mostrando come il dolore di ogni giorno sappia renderci davvero umani e avvicinarci alle vite di chi non conosciamo, permettendoci di comprenderle. Ecco perché in questa raccolta non mancano poesie come “Yusuf”, “Madri”, “Abitudine” e “A Raphael”, componimenti dove la voce poetica si carica di un tono civico che non si limita a denunciare le sofferenze altrui in contesti di guerra o violento destino, ma li abbraccia comprendendoli in un dolore comune, tramite cui ci è possibile porgere orecchio alla richiesta d’aiuto dell’altro. In questa tragedia dove ogni componimento costituisce un’ambientazione diversa del palcoscenico, la poetessa non è osservatore onnisciente, ma personaggio tra gli altri. Garavaglia è una donna e una madre, che nel ricordo della sofferenza cerca un senso all’esistenza, passandola al setaccio di una costruzione poetica sapientemente sintetizzata in scelte linguistiche mai banali. Quale dunque il significato di un titolo che contraddice pienamente il contenuto della raccolta? Si ritorna all’inizio, laddove la prima impressione sorse ed è ora ribaltata da un tuffo
verso il fondale che ci mostra le cose in una nuova prospettiva: “Siamo solo ricordi all’orizzonte/ nella presenza viva delle cose”. Ecco quindi il messaggio della poetessa che riemerge dagli Inferi, recando sulla propria lingua una parola di speranza, che basta a sciogliere il dolore: solo questa presenza viva può riguadagnare un senso alla distruzione. Solo la memoria può restituire significato all’oblio.